2025/04/27.Italia: si vive di più, ma non sempre meglio. Le nuove sfide della salute pubblica nel nostro Paese


Negli ultimi vent’anni, in Italia si è assistito al progressivo allungamento della vita. L’aspettativa di vita alla nascita è aumentata da 79,6 anni nel 2000 a 83,4 anni nel 2019. Un traguardo significativo, raggiunto grazie ai progressi nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, nei trattamenti oncologici e negli interventi di salute pubblica. Tuttavia, questa conquista si è scontrata con l’impatto della pandemia da COVID-19, che nel 2020 ha ridotto l’aspettativa di vita a 82,2 anni, con lieve ripresa nel 2021 (82,7 anni), ma senza pieno ritorno ai livelli pre-pandemici.

Ma vivere più a lungo non significa automaticamente vivere meglio. Un indicatore sempre più utilizzato per misurare la qualità della vita è l’HALE (Health Adjusted Life Expectancy), ovvero gli anni vissuti in buona salute. Anche questo parametro è aumentato in Italia, passando da 68,5 anni nel 2000 a 70,9 anni nel 2021. Tuttavia, il quadro che emerge dallo studio condotto dai ricercatori del Global Burden of Disease 2021 e pubblicato su The Lancet Public Health è più complesso e segnato da profonde disuguaglianze.

Le differenze regionali, infatti, sono marcate e in crescita. Nord e Centro Italia registrano i valori più alti di aspettativa di vita e HALE, mentre Sud e Isole presentano livelli inferiori. A livello subnazionale, regioni come Campania e Sicilia mostrano i peggiori indicatori di mortalità precoce e qualità della vita. Questi dati riflettono in parte la diversa distribuzione della ricchezza, la capacità dei Servizi Sanitari locali e le condizioni demografiche, ma anche le scelte politiche e amministrative che, negli anni, hanno accentuato l’autonomia regionale senza garantire un’equità reale.

Un altro dato allarmante riguarda l’aumento del carico di malattia non fatale: disturbi come mal di schiena cronico, cadute, cefalee, ma soprattutto disturbi d’ansia e depressione hanno subito un’impennata, in particolare nel biennio 2020-2021. Le donne risultano più colpite da esiti non fatali, in particolare per quanto riguarda la salute mentale e le malattie neurodegenerative. Anche la prevalenza di diabete e Alzheimer è cresciuta, con un impatto più pesante proprio nelle regioni con popolazione più anziana o con minori risorse, come il Sud e le Isole.

Il quadro che emerge pone interrogativi cruciali. Se da un lato la riduzione delle morti per infarto, tumori e incidenti stradali dimostra l’efficacia delle campagne di prevenzione e delle innovazioni terapeutiche, dall’altro il crescente peso dei disturbi cronici e della disabilità mostra che stiamo vivendo più a lungo ma con più anni di malattia e sofferenza.

Il Sud e le Isole si trovano in una situazione paradossale: nonostante una popolazione mediamente più giovane, mostrano tassi di mortalità precoce più alti rispetto al Nord. Questo suggerisce che la qualità dei Servizi Sanitari, l’accessibilità alle cure e le condizioni socio-economiche continuano a rappresentare barriere strutturali all’equità in salute.

L’indagine GBD (Global Burden of Diseases) 2021 sottolinea anche il problema crescente della spesa sanitaria privata. Se, in teoria, il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe garantire cure universali e gratuite, nella pratica sempre più famiglie ricorrono a spese “di tasca propria” per sopperire alle carenze del sistema pubblico. Questo fenomeno è particolarmente accentuato nel Nord, dove le famiglie riescono a spendere di più, ma nel Sud si osserva una forma di “rinuncia” alle cure per impossibilità economica.

Le implicazioni di questi dati sono profonde. L’aumento delle malattie croniche e della disabilità richiede politiche di prevenzione più incisive, rafforzamento della medicina territoriale, investimenti in salute mentale, e attenzione particolare all’invecchiamento attivo. La promozione dell’attività fisica, dell’alimentazione sana e dell’inclusione sociale, insieme a interventi tempestivi contro i fattori di rischio comportamentali e metabolici, sono azioni imprescindibili.

È urgente, inoltre, intervenire sulle disuguaglianze: il divario tra Nord e Sud non può essere accettato come ineluttabile. La proposta di una maggiore autonomia differenziata rischia di aumentare ulteriormente questa frattura, rendendo ancora più difficile l’accesso ai servizi sanitari di qualità nelle aree economicamente svantaggiate.

Infine, lo studio invita a non arretrare sul fronte della sanità pubblica. La crescente privatizzazione del sistema sanitario non deve diventare la risposta alle sue inefficienze, ma un motivo in più per rafforzare l’universalità, la prossimità e la giustizia del nostro Servizio Sanitario Nazionale.

Il contributo di ASPIC: promuovere salute, ridurre disuguaglianze

Nel contesto delineato dallo studio GBD 2021, le attività dell’associazione ASPIC assumono una valenza ancora più rilevante. Con il Programma ELISA, attivo da oltre un decennio, ASPIC promuove percorsi di alfabetizzazione sanitaria, prevenzione e accompagnamento individuale, rivolgendosi in particolare a persone vulnerabili, spesso escluse dai percorsi istituzionali. L’azione capillare nei quartieri, i corsi formativi su prevenzione primaria e secondaria, il punto informativo sanitario (infopoint), e l’impiego di educatori pari come mediatori culturali e sanitari, rispondono concretamente a molte delle criticità emerse dallo studio: disuguaglianze nell’accesso, difficoltà di comprensione delle informazioni sanitarie, barriere culturali e sociali. ASPIC agisce là dove i dati mostrano che il bisogno è più forte, contribuendo con mezzi semplici ma mirati a costruire una salute più giusta per tutti.

Mohsen Naghavi . State of health and inequalities among Italian regions from 2000 to 2021: a systematic analysis based on the Global Burden of Disease Study 2021. The Lancet, April 2025 . https://www.thelancet.com/journals/lanpub/article/PIIS2468-2667(25)00045-3/fulltext

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