Reinfezione da SARS-CoV-2


Negli USA, nel periodo 1 marzo 2020 – 30 maggio 2021, è stata diagnosticata COVID-19 a 30 milioni di persone. Il futuro della pandemia è incerto perché ancora poco note sono sia la forza e la durata della risposta immune dopo vaccinazione o malattia, sia la risposta a nuove varianti di SARS-CoV-2.

Per informare scelte di tipo clinico e di salute pubblica, è molto importante conoscere i fattori che influenzano la reinfezione da COVID-19.

Questo tema è stato approfondito da Mack e coll.: nell’ambito di protocolli di salute e sicurezza sul lavoro in corso di pandemia, hanno seguito dal punto di vista clinico e di laboratorio soggetti (giocatori e famigliari associati, staff e fornitori) che facevano capo alla National Basketball Association (NBA) – Stagione 2020-2021. Nell’arco di 6 mesi (1 dicembre 2020 – 30 maggio 2021), nei soggetti sottoposti a sorveglianza sono stati raccolti i seguenti dati: risultati di tamponi orofaringei (ricerca di RNA virale con metodica RT-PCR), dati demografici, anamnestici su possibile fonte di contagio e clinici, risultati del titolo anticorpale, informazioni su eventuali varianti.

Risultati. Nel periodo di studio sono stati monitorati 7980 individui: di questi 768 risultavano aver superato COVID-19, confermata da positività del test RT-PCR e/o dalla presenza di anticorpi. Su 768 soggetti con malattia confermata, sette hanno successivamente avuto una reinfezione.

I soggetti con reinfezione presentavano le seguenti caratteristiche.

  • Dati demografici. Tutti i soggetti erano di sesso maschile con età media di 30 anni (range 19-44).
  • Esposizione. Eccetto il caso N° 1, i restanti soggetti avevano avuto contatti con individui risultati positivi per SARS-CoV-2 entro la settimana precedente la diagnosi di reinfezione.
  • Dati clinici. Sei su sette individui (86%) al momento della reinfezione non avevano sintomi; il caso N° 7, risultato immunocompromesso, ha manifestato cefalea, mialgie, alterazione del gusto e dell’olfatto al momento della diagnosi.
  • Indagini sierologiche. Sei su sette individui (86%) presentavano anticorpi SARS-CoV-2 al momento della reinfezione o nel periodo immediatamente precedente; in 2/7 soggetti (29%) il livello di anticorpi è aumentato dopo la reinfezione. Il caso N° 7, negativo per anticorpi al momento della diagnosi, ha mostrato sieroconversione 33 giorni dopo. La presenza di anticorpi in 6/7 soggetti con reinfezione fa porre la domanda: in che misura risultati quantitativi di test anticorpali in commercio, indicano protezione da SARS-CoV-2? I livelli di anticorpi diretti contro la proteina Spike si correlano bene con i titoli neutralizzanti il ​​virus; tuttavia, è ancora poco chiaro quale debba essere il livello di anticorpi neutralizzanti necessari per proteggere da reinfezione, e come tali livelli possano essere identificati dai test attualmente in uso.
  • Carica virale.  Durante la reinfezione la carica virale di picco risulta inferiore a quella osservata in soggetti con infezione primaria. Tale differenza potrebbe indicare che la replicazione virale in soggetti che posseggono anticorpi contro SARS-CoV-2 è ridotta rispetto a quella di soggetti naïve per COVID-19. Inoltre, in 4 soggetti i valori di carica virale erano sufficienti per la trasmissione del virus ad altri.
  • Sequenziamento genomico. Non è stato eseguito in corso di infezione primaria, per cui non è stato possibile stabilire se la reinfezione fosse provocata o meno da varianti. Per contro, il sequenziamento ha evidenziato che sia i casi che i relativi contatti condividevano le stesse varianti e genomi simili.
  • Tempo medio tra infezione primaria e reinfezione è risultato di 152 giorni. Il caso N° 7, immunocompromesso e senza anticorpi rilevabili al momento della reinfezione, si è infettato entro 30 giorni dall’infezione primaria, infezione confermata con RT-PCR. Difficile l’interpretazione del caso: potrebbe trattarsi di falso-positivo, oppure di una positività per virus “in transito”, oppure ancora di riattivazione di infezione primaria, più che di reinfezione.

In conclusione, i casi descritti dimostrano che la reinfezione tende a manifestarsi mediamente dopo 5 mesi dalla prima infezione, si verifica anche in presenza di risposta anticorpale (con i test a disposizione non è ancora dimostrato se gli anticorpi corrispondano a quelli neutralizzanti la proteina spike), risposta che potrebbe giustificare la minor carica virale rispetto a quella osservata in corso di infezione primaria; anche l’assenza di sintomi potrebbe trovare giustificazione nella minore carica infettante. Infine, sembrerebbe assodato che il soggetto con reinfezione e con modesta carica virale sia in grado di trasmettere ad altri l’infezione.

Pur con i limiti di una casistica ridotta, lo studio ha evidenziato elementi molto utili nell’ambito della risposta immune a SARS-CoV-2, ed è augurabile che maggiori informazioni si rendano disponibili in un futuro prossimo.  Con l’emergere di varianti di SARS-CoV-2 sono infatti in progressivo aumento i casi di reinfezione; vi sarà l’opportunità di conoscere meglio l’efficacia reale dei vaccini e la risposta immunitaria post-infezione e, su tali basi, ridefinire future politiche sanitarie.

Riferimenti

Mack CD et al. SARS-CoV-2 Reinfection: A Case Series from a 12-Month Longitudinal Occupational Cohort . Clinical Infectious Diseases, 28 August 2021, https://doi.org/10.1093/cid/ciab738 https://academic.oup.com/cid/advance-article/doi/10.1093/cid/ciab738/6359055